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Adotta un orto nelle Ande
Nel 1995 un team di scienziati italiani ha scoperto l’esistenza dei neuroni specchio, che dall’interno del nostro cervello ci spingono a immedesimarci con gli “altri”: ogni volta che ci viene raccontata una storia il nostro cervello ci trasforma per qualche tempo nei personaggi di quella storia, scatenando in noi le loro medesime emozioni, lo stesso sentire. In un mondo virtualmente connesso e globalmente rappresentato con ogni tecnologia a disposizione, le storie degli altri ci raggiungono da ogni dove e intersecano le nostre storie personali. Le storie tragiche ci fanno male, ci avviluppano nei sensi di colpa, nell’impotenza, ci infiammano di sdegno e suscitano in noi la paura: e se la prossima volta toccasse a noi? Le storie a lieto fine ci illuminano, suscitano gioia e leggerezza, ci restituiscono il potere: e se la prossima volta fossimo noi, con il nostro intervento, i supereroi della situazione?
Anche se, come dice una canzone di De Andrè, “il dolore degli altri è dolore a metà”, a meno di avere i neuroni specchio un po’ offuscati è impossibile rimanere indifferenti di fronte ai quotidiani disastri umani che cavalcano i media, anche quando sembrano non toccarci direttamente. Ma la buona notizia è che è altrettanto inevitabile immedesimarsi nei personaggi delle storie edificanti, entusiasmanti, brillanti – in poche parole, a lieto fine.
I territori devastati dallo sfruttamento intensivo, le popolazioni costrette a trasferirsi nelle squallide periferie del terzo mondo, i bambini denutriti e gli adulti analfabeti, senza cure e senza diritti, fanno parte di quelle storie che ci stringono letteralmente il cuore: la cascata di sostanze neurochimiche scatenata dai neuroni specchio ci sta dicendo che c’è qualcosa che non va nel mondo, ma è così lontano che non possiamo far altro che starci male. Eppure, a volte scopriamo che la frutta e gli ortaggi coltivati dalle famiglie che riescono a vivere in modo sano e dignitoso in quegli stessi luoghi hanno colori meravigliosi, e i sorrisi soddisfatti di adulti e bambini rilucono su volti sani e vivaci; adesso sì che è bello immedesimarci, fino a sentire in bocca il sapore di quella frutta e di quegli ortaggi, e il canto degli uccelli tropicali sullo sfondo, e l’aria fresca della sera carica di odori esotici!
Dovrebbe essere la norma: ogni famiglia di una comunità dovrebbe possedere una casa, un appezzamento di terreno coltivabile sufficiente a sfamarla e a produrre un sovrappiù da rivendere per potersi assicurare tutto il resto – salute, istruzione, vestiti, spostamenti e via dicendo–, dovrebbe avere accesso ad acqua pulita e abbondante, poter vivere pacificamente sulla propria terra integrando i saperi ancestrali con la migliore tecnologia e le più sagge conoscenze del mondo moderno. E invece, niente di tutto ciò è scontato; anzi, purtroppo oggi è l’altro scenario quello dominante, in particolare nelle aree che potrebbero e dovrebbero essere il serbatoio della biodiversità naturale e culturale dell’umanità.
Se è pur vero che tutto il mondo è paese, ci sono realtà effettivamente troppo lontane da noi e altre che iniziative di solidarietà ben riuscite hanno avvicinato alla portata del nostro intervento. Osservando il mappamondo con una lente d’ingrandimento, possiamo individuare una di queste isole felici nell’Ecuador. Se poi continuiamo ad avvicinarci sostituendo la lente d’ingrandimento con un microscopio, inizieremo a distinguerne i dettagli: qui le famiglie non si limitano a sopravvivere, ma vivono; coltivano i loro terreni senza macchinari ma con l’uso di tecniche antiche innovate da moderne tecnologie pulite e a basso costo, hanno a disposizione tutta l’acqua necessaria a bere, mantenere un livello igienico soddisfacente e irrigare i campi; i bambini vanno a scuola, le donne svolgono ruoli di primo piano, i malati hanno accesso alle cure mediche. Eccole le facce contente, ecco i frutti e gli ortaggi saporiti e sani, non essendo necessario avvelenarli con pesticidi e fertilizzanti inutili là dove il suolo stesso è ancora dotato di tutta la sua capacità generativa e le piante sono abbastanza forti da aver bisogno di pochi, oculati e non invasivi aiuti per far fronte all’attacco dei parassiti. Ma se la produzione è abbondante e attraente, tutto quello che eccede il consumo famigliare potrà essere venduto sul mercato locale, poi magari su quello nazionale, e infine, chissà, intraprendere il lungo viaggio che terminerà nel nostro piatto …
D’altro canto, in tutto il mondo l’autosufficienza delle unità familiari è sempre stata la realtà di base, culturale e pratica, da cui hanno potuto svilupparsi l’agricoltura e l’allevamento. Ma gli equilibri che strutturano quello spazio di libertà tra un’agricoltura/allevamento a dimensione comunitaria e la devastante rapina del latifondismo sono delicati. Oggi, per riprodurre e sostenere quegli equilibri bisogna essere professionisti della solidarietà, dotati di idee chiare, determinazione, competenze tecniche e capacità organizzative, caratteristiche che l’ONG GsFEPP (Grupo Social Fondo Ecuatoriano Populorum Progresio), ha affinato nei suoi quarant’anni di attività, uno di quegli scenari in cui prima dell’intervento dell’organizzazione non avremmo mai voluto doverci immedesimare. L’attuale obiettivo del FEPP è di aggiungere altre famiglie campesine a quelle già inserite nei progetti con successo, per accompagnarle sulla via dell’autosufficienza nel rispetto degli esseri umani e della loro cultura, del territorio e quindi del pianeta.
Ed eccoci tornati al punto di partenza: aiutare gli altri a star meglio aiuterà noi a star meglio. L’investimento è multiforme: se in un angolo sperduto del mondo le persone non sono costrette a strappare in malo modo al pianeta la loro sopravvivenza, il pianeta sarà più salubre, e tutti gli altri abitanti potranno goderne. Se una comunità campesina ritroverà la dignità e la gioia che spetta per diritto a tutti gli esseri umani, a tutti darà gioia e fierezza rispecchiarsi nel loro successo.
Ma allora, considerato che nell’intrico neuroplastico che è il cervello umano “quello che non viene usato va perduto”, forse la ragione dell’esistenza dei neuroni specchio è proprio di mostrarci che alla fin fine quello che non vorremmo vedere è quello che dobbiamo cambiare, e quello che ci fa star bene è lo standard di come dovrebbero andare le cose. E se il mondo ci sembra troppo vasto per le nostre piccole braccia, possiamo sempre affidare il nostro sforzo a chi saprà trasformarli in fatti concreti – per esempio, “Adotta un orto nelle Ande” (questo il Leitmotiv del progetto) per vederceli ritornare sotto forma di una nuova storia vincente in cui potersi immedesimare, fino a gustarne realmente i sapori, i profumi e i colori sulla nostra tavola. E chissà che quel francobollo di biodiversità umana, culturale e naturale recuperata, attraverso le più imprevedibili vie non ci risparmi alla fine un conto ben più salato tra spese mediche, farmaci e fughe virtuali o reali nell’Incontaminato…
(Valeria Valli)